L'ETA' AUGUSTEA

L'agricoltura

 

I primi Romani furono pastori e razziatori di bestiame; da ciò la persistenza nel lessico economico-giuridico di termini come pecunia e peculium derivanti da pecus "gregge": poiché il gregge era moneta di scambio e il capo di bestiame era l'unità di misura. Alla pastorizia si unì strettamente la coltivazione dei campi. Benché la città di Roma dovesse la sua crescita all'ottima posizione geografica favorevole ai commerci, l'agricoltura e l'allevamento restarono le attività primarie. Il civis Romanus era il contadino-soldato: colui che coltivava il suo fondo con l’aiuto della famiglia (struttura patriarcale, con un pater a capo degli elementi subalterni: donne, minori e qualche schiavo) e che, all'occorrenza, serviva in armi per difendere la terra ereditata dai padri (patria). Il primato dell’agricoltura, intesa come unico negotium economico veramente nobile, era talmente interiorizzato nell'ideologia romana che la legge consentiva ai senatori - l'unico ceto politico - di essere proprietari terrieri, ma vietava loro di intraprendere qualsiasi altro affare (commerciale, industriale, finanziario): queste diverse attività economiche erano riservate all'ordine equestre, i cui esponenti talvolta facevano da prestanome a senatori che avevano parte in tali negotia.

La coltivazione principale era quella dei cereali: grano, farro, orzo, sui quali si basava l'alimentazione di uomini e cavalli. Gradualmente acquistarono molta importanza anche la vite, che si disponeva in filari, e l'ulivo, importato dalla Magna Grecia: pane e olive diventarono il cibo della famiglia povera e degli schiavi agricoli. La coltivazione degli alberi da frutto era limitata. Pecore e capre fornivano il latte e la lana, i buoi lavoravano i campi, dal latte di mucca specialmente si ricavavano i formaggi. I cavalli erano allevati per la guerra e per la corsa, gli asini per il tiro. Nei poderi non mancavano polli e suini, e molto diffuso era l'allevamento delle api per la produzione sia della cera sia del miele, unico dolcificante conosciuto.

L'arcaica religione romana era fondata sulla divinizzazione delle misteriose ma benefiche forze della terra e della natura, che l'agricoltore doveva propiziarsi e alle quali erano dedicate numerose feste: Saturnus, che portò nel Lazio l'età dell'oro (identificato col greco Crono), dio della semina (radice sat di sero); Ops ("Abbondanza": opes sono le ricchezze) dea dei raccolti rigogliosi; Ceres figlia di Saturno, dea della terra e dell'agricoltura (da lei l'agg. Cerealis che dette il nome alle colture); Pa!es genio tutelare della pastorizia (donde probabilmente il nome del Palatino, il primo colle abitato); Faunus (Lupercus) e Silvanus, talora identificati in uno solo, geni dei boschi. La più antica preghiera conservataci in lingua latina (antecedente al VI sec.) è il carme dei sacerdoti Arvali (arva sono i campi, le Ambarvalia erano grandi feste di maggio) in cui si invocano i Lari, Marmar (Marte) e i Semoni geni della seminagione.

La struttura agraria arcaica era fondata sulla piccola proprietà. Si diceva che Romolo avesse assegnato a ogni cittadino un appezzamento di due iugeri, circa mezzo ettaro (1 iugero = 0,25 ha); in seguito la terra concessa a ogni cittadino soldato fu di sette iugeri (meno di due ettari). Ai piccoli poderi assegnati in piena proprietà si affiancava l'ager publicus, un istituto che discendeva dalla primitiva proprietà comune del suolo: l'agro pubblico restava formalmente di proprietà dello Stato ma veniva distribuito in "possesso" ai cittadini in cambio di una tassa d'affitto.

L'espansione della res publica con la progressiva conquista dell'Italia ampliò le terre disponibili, favorendo la nascita - accanto al podere piccolo-medio del contadino-soldato - della grande proprietà dei cittadini ricchi, i quali facevano incetta delle terre avanzate dopo le pubbliche distribuzioni. Secondo Catone il Vecchio, autore di un trattato De agri cuhura (Il sec.a.C.), l'estensione di un podere modello a coltura intensiva era di cento iugeri. I grandi proprietari si facevano cedere a buon prezzo gli appezzamenti di agro pubblico dei piccoli coltivatori indebitati; nacque così il latifondo e andò scomparendo la piccola proprietà, rovinata dal prolungarsi del servizio militare nelle lunghe spedizioni in terre lontane e nei conflitti di durata più che decennale (prima dell'età delle guerre puniche il contadino-soldato lasciava i campi per pochi mesi) e dalla concorrenza del latifondo che poteva contare sul lavoro degli schiavi, dei quali abbondava la disponibilità a causa delle guerre di conquista.

Intorno alla metà del Il secolo a.C. la situazione dell'agricoltura in Italia si presentava quale la descrive lucidamente lo storico greco Appiano (Il sec. d.C.): "I ricchi, occupata la maggior parte della terra indivisa (l'ager publicus) e resi sicuri con il passar del tempo che nessuno l'avrebbe loro tolta, quante altre piccole proprietà di poveri erano loro vicine o le compravano con la persuasione o le prendevano con la forza, sì da coltivare estesi latifondi al posto dei semplici poderi. Essi vi impiegavano, nei lavori dei campi o del pascolo, degli schiavi, dato che i liberi sarebbero stati distolti per il servizio militare dalle fatiche della terra. D'altro canto il capitale rappresentato da questa mano d'opera arrecava loro molto guadagno per la prolificità degli schiavi, che si moltiplicavano senza pericoli, stante la loro esclusione dalla milizia. In tal modo i ricchi continuavano a diventarlo sempre di più e gli schiavi aumentavano per le campagne mentre la scarsità e la mancanza di popolazione affliggeva gli Italici, rovinati dalla povertà, dalle imposte e dal servizio militare. Se per caso avevano un po' di respiro dalla milizia, si trovavano disoccupati, perché le terre erano possedute dai ricchi, che impiegavano a coltivarle lavoratori schiavi anziché liberi" (Le guerre civili., 1,7,29-31).

Tiberio Gracco (tribuno della plebe nel 133 a.C.) e Caio Gracco (tribuno nel 123), iniziatori della tendenza politica popularis, tentarono di arrestare e rovesciare la crescita del latifondo facendo approvare le leggi agrarie, che oltre a fissare un limite di 500 iugeri al possesso dell' ager publicus imponevano che tutte le terre in esubero venissero redistribuite. Il loro scopo era la ricostituzione della piccola proprietà e della figura del contadino-soldato che era stata alla base dell'antica repubblica. Ma l'opposizione irriducibile dei latifondisti collegati alla fazione senatoria bloccò la riforma graccana.

La mancata soluzione della questione agraria si ripercosse drammaticamente in tutto il secolo delle guerre civili: le proscrizioni degli avversari politici e le distribuzioni di terre ai veterani sconvolsero ripetutamente le campagne, acutizzando la tendenza alla concentrazione latifondistica, alla perdita della proprietà da parte dei recenti coloni, inesperti di agricoltura, e all'impoverimento generale di braccianti e contadini che andarono a ingrossare il sottoproletariato dell'Urbe, provocarono sollevazioni e aderirono a movimenti politici, come quello di Catilina..

Anche le colture e il paesaggio agrario mutarono sensibilmente: il frumento era importato a infimo prezzo dai granai dell'impero (prima Sicilia, poi Egitto) e distribuito nelle largitiones alla plebe urbana.

In Italia i grandi possedimenti vennero per la maggior parte adibiti a pascolo - si scisse così l'antica unità di agricoltura e allevamento - oppure, in misura minore ma significativa, coltivati ad alberi da frutto (oltre che ad uliveti e vigneti): sicchè Varrone, nel suo libro sull'agricoltura, da un lato biasimava i proprietari che avevano ridotto a pascolo i campi coltivati, dall'altro vedeva l'Italia trasformata in un grande frutteto.

Il trattato di Varrone, che si esprime in forma dialogica ed è articolato in tre libri, costituisce la naturale evoluzione delle tendenze già presenti nel De agri cultura di M.Porcio Catone (234-149 a.C.); la mentalità utilitaristica del proprietario terriero, infatti, non più volta esclusivamente allo sfruttamento e all'accumulo delle risorse, muta di prospettiva: al trattamento disumano nei confronti degli schiavi, ad esempio, si sostituisce una specie di paternalismo lungimirante; nella stessa villa rustica, ampia ed elegante, oltre alle indispensabili attrezzature agricole dovrà esserci lo spazio necessario per la creazione di parchi, uccelliere, piscine e riserve di caccia. Nell'opera, che è perfettamente in linea con la realtà sociale ed economica del momento, non mancano accenni ai problemi più attuali, quali la decadenza dei costumi e lo spopolamento delle campagne, cui si contrappone l'elogio moralistico del piccolo coltivatore dei tempi passati.

Augusto potè ben poco in materia di riforma agraria: a difesa dell'agricoltura italica egli cercò di favorire la diffusione di una "ideologia contadina" che doveva ripristinare i valori della media proprietà a coltivazione diretta; il suo programma incontrò le concezioni di Virgilio.