Dal Rapporto della Commissione europea sull'occupazione risulta che negli anni 1986 - 1996 c'è stato in tutta l'Europa un aumento del lavoro a tempo determinato, sia per gli uomini che per le donne. Tuttavia, la tendenza all'utilizzo di tale modalità lavorativa varia a seconda dei paesi.
In testa alla classifica troviamo Spagna e Finlandia, mentre in Italia rileviamo una ridotta incidenza del lavoro temporaneo rispetto alla media europea, nonostante l'indubbio incremento registrato negli ultimi anni. Da un'indagine ISTAT risulta che nel 1997 gli occupati a tempo determinato in Italia erano 1,2 milioni (pari all'8% del totale dei lavoratori dipendenti): si tratta di una quota piuttosto bassa, considerato anche che tale aggregato comprende impiegati con contratto di formazione e lavoro, apprendisti, tirocinanti, borsisti, dottorandi di ricerca, lavoratori in periodo di prova e tutti quei soggetti che per varie ragioni non hanno potuto o voluto trovare un lavoro permanente. Questi ultimi, per inciso, ricoprono solo il 4% del totale. La maggioranza dei lavoratori temporanei si concentra nella fascia di età compresa tra i 21 e i 31 anni, dato abbastanza prevedibile se pensiamo che gran parte dei contratti temporanei sono collegati a finalità formative. In relazione all'area geografica registriamo un'incidenza più elevata al sud rispetto al centro e al nord. Inoltre, i settori nei quali si ricorre meno al lavoro temporaneo sono l'industria manifatturiera e la pubblica amministrazione, mentre quello in cui vi si ricorre di più è l'agricoltura. In relazione alla qualifica professionale rileviamo un'incidenza elevata per gli apprendisti, mentre la consistenza per le qualifiche direttive e impiegatizie è piuttosto ridotta. I dati evidenziano inoltre un maggior ricorso al lavoro temporaneo nei casi di lavoro a domicilio e del lavoro domenicale. Diversa è anche l'incidenza per settori in relazione all'orario di lavoro.
La tassonomia del lavoro temporaneo appare insomma piuttosto variegata ed evidenzia in sintesi come, perlomeno in merito all'impiego di forme e tipologie di lavoro alternative rispetto a quelle tradizionali, il mercato del lavoro italiano sia da alcuni anni interessato da una maggiore flessibilità.
Il contratto a tempo determinato (o a termine) era disciplinato da una legge del 1962 (la n. 230), la quale conteneva delle sanzioni particolarmente rigide in caso di violazione delle norme poste a tutela del lavoratore. Prima della legge Treu, infatti, la prosecuzione del rapporto oltre la scadenza inizialmente fissata ovvero la riassunzione del lavoratore entro l’intervallo di tempo tra due contratti successivi a termine stabilito dal legislatore, faceva scattare la sanzione della conversione del rapporto a tempo indeterminato. La severità di questa sanzione poteva causare un danno all’azienda, impossibilitata a portare a termine un lavoro entro il periodo inizialmente stabilito, ma anche al lavoratore, che avrebbe potuto essere occupato (e guadagnare) per qualche giorno a settimana di più. La nuova disciplina, introducendo un regime sanzionatorio più articolato permette un utilizzo più ampio di questo particolare rapporto di lavoro nell’ambito della più volte ricordata flessibilizzazione del mercato del lavoro.
Ora la continuazione del rapporto di lavoro oltre il termine inizialmente stabilito determina solamente un aggravio retributivo proporzionato al tempo di semplice prosecuzione del contratto fino a un tempo massimo di trenta giorni, trascorsi i quali il contratto si trasforma a tempo indeterminato ma diversamente da quanto stabilito dalla disciplina precedente, sarà senza effetti retroattivi. Va ricordato che la legge Treu, disciplina anche le ipotesi di riassunzione del lavoratore inizialmente assunto a termine.