ANNALES AB EXCESSU DIVI AUGUSTI I |
||
XI. Versae inde ad Tiberium preces. Et ille uarie disserebat de magnitudine imperii sua modestia. Solam diui Augusti mentem tantae molis capacem: se in partem curarum ab illo uocatum experiendo didicisse quam arduum, quam subiectum fortunae regendi cuncta onus. Proinde in ciuitate tot inlustribus uiris subnixa non ad unum omnia deferrent: plures facilius munia rei publicae sociatis laboribus exsecuturos. Plus in oratione tali dignitatis quam fidei erat; Tiberioque etiam in rebus quas non occuleret, seu natura siue adsuetudine, suspensa semper et obscura uerba: tunc uero nitenti ut sensus suos penitus abderet, in incertum et ambiguum magis implicabantur. At patres, quibus unus metus si intellegere uiderentur, in questus lacrimas uota effundi; ad deos, ad effigiem Augusti, ad genua ipsius manus tendere, cum proferri libellum recitarique iussit opes publicae continebantur, quantum ciuium sociorumque in armis, quot classes, regna, prouinciae, tributa aut uectigalia, et necessitates ac largitiones. Quae cuncta sua manu perscripserat Augustus addideratque consilium coercendi intra terminos imperii, incertum metu an per inuidiam. |
XI. Le preghiere si volsero subito dopo a Tiberio, ma questi si metteva a discorrere variamente della vastità dell'impero e della sua mediocrità, affermando che la sola mente del divino Augusto poteva reggere tanta mole e che egli, dallo stesso Augusto chiamato a partecipare alle cure dello Stato, con la sua propria esperienza aveva imparato quanto arduo e quanto soggetto ai capricci della fortuna fosse il grave compito del dominare. Proprio per questo in uno Stato che si appoggiava su tanti uomini illustri, badassero a non trasferire tutto il potere nelle mani di uno solo; più persone, riunendo insieme i loro sforzi, con maggior facilità, adempirebbero agli uffici inerenti alla cosa pubblica. In tale discorso vi era più solennità di forma che sincerità; Tiberio anche quando non voleva nascondere il suo pensiero, sia per natura, sia per abitudine, usava sempre parole ambigue ed oscure; quando poi si sforzava particolarmente di occultare i suoi sentimenti, le sue parole erano quanto mai avviluppate nelle incertezze e nelle ambiguità. Tuttavia i senatori, che avevano una sola paura, quella di far vedere che lo capivano, si effondevano in lamenti, in lacrime, in voti; tendevano le mani agli dei, alla statua di Augusto, alle ginocchia di Tiberio, quando questi ordinò che si portasse e si leggesse ad alta voce il quadro statistico su cui erano enumerate le forze dello Stato: quanti erano i cittadini e gli alleati in armi, quante le flotte, i regni, le province, i tributi e le tasse, le spese ordinarie e i donativi. Tutto ciò Augusto aveva scritto di suo pugno; aveva anche aggiunto, non si sa se per timore o per invidia, il consiglio di mantenere l'impero negli attuali confini. |
|