L'ETA' AUGUSTEA

Il diritto

Il I sec. a.C. sembra segnare una svolta nel pensiero giuridico poiché allora inizia, sotto l'influsso della filosofia greca, l'elaborazione dei fondamenti del diritto.

Di problemi giuridici si interessò anche Cicerone; nelle opere filosofiche, in particolare nel De re publica e nel De legibus, si preoccupò di dare una definizione generale del diritto e della legge. Del diritto positivo Cicerone, comunque, per quanto abbia un'alta stima della sapienza giuridica romana, lamentava la mancanza di organicità che rendeva difficile ridurlo a un sistema retto da una logica e, quindi, trasmissibile e apprendibile.

Il più significativo dei mutamenti culturali in campo giuridico riguardò, proprio in questo periodo, la correzione dell'antico formalismo, basato sulla stretta osservanza dello scriptum (o verba), con un'interpretazione degli strumenti giuridici (norme, contratti, testamenti, ecc.) che tenesse in qualche conto anche la voluntas (o sententia) dei contraenti o del legislatore. La possibilità della duplice interpretazione della norma, secondo la lettera e secondo lo spirito, fu uno dei terreni su cui si esercitò la retorica del tempo, che costituì uno stimolo e uno strumento della scienza giuridica; la quale, in età augustea, si esplicò soprattutto attraverso l'attività di M.Antistio Labeone e G.Ateio Capitone.

Il primo, di sentimenti repubblicani, non volle integrarsi nel regime augusteo e rifiutò il consolato offertogli dal principe: era un seguace dello stoicismo, che probabilmente interpretava con una certa rigidità e da cui traeva ispirazione per una concezione razionalistica del diritto che, cioè, lo imparentava all'analogismo e lo spingeva anche a proporre innovazioni per rendere il complesso delle norme internamente coerente e rispondente alla legge generale del bene.

Su posizioni politicamente diverse si schierò invece Capitone, favorevole ad Augusto, più legato alla tradizione giuridica ma, a quanto pare, più disposto ad ammettere una valutazione della norma caso per caso e, quindi, più vicino alle concezioni anomalistiche.

Naturalmente il principato influenza anche il modo in cui si svolge l'attività giuridica. In uno scarno disegno di storia della giurisprudenza romana che i compilatori trassero da un'opera di S.Pomponio (II sec. d.C.) sembra che Augusto, senza toccare la libertà di ognuno di dedicarsi all'attività giuridica, abbia conferito ad alcuni eminenti giuristi lo speciale privilegio di impartire i loro pareri in nome dell'imperatore. Un'interpretazione rigorosa del passo di Pomponio induce alla conclusione che l'attività consultiva "pubblica" (il publice respondere) doveva essere riservata esclusivamente ai giuristi autorizzati dal principe. Così ai detentori di questo ius (publice) respondendi, e soltanto a loro, veniva riconosciuto un influsso diretto, e determinante, sull'amministrazione della giustizia.

Con Augusto, quindi, lo iuris consultus può essere non più un privato che esercita questa professione nella propria casa, ma un esperto, delegato del principe, che già assume le vesti del funzionario, poiché agisce in un edificio (statio) messo a sua disposizione dallo Stato, fornito di biblioteca, e al quale è annessa una scuola.