Aristotele considera il mondo come realtà in movimento regolata da una forza ad essa interna. Tale processo è circolare per indicare una continuità ininterrotta ed esprime una concezione della vita che è tipicamente greca. Questo principio è accettato senza dimostrazione scientifica e si basa solo sull’intuizione della perennità del divenire, che Aristotele ritiene governato da regole assolute interne alla natura, che costituiscono il fine di ogni cambiamento (la materia realizza la sua forma passando dalla potenza all’atto).
E’ un fatto visibile che la natura cambia, sono invece indimostrate le regole in base a cui ciò avviene. Aristotele tuttavia non esclude l’importanza dell’esperienza diretta ed esamina la natura materiale del mondo (aria, terra, acqua, fuoco). Egli chiama atto puro il motore del processo; questo è immobile, impersonale, eterno e costituisce "il fondamento indimostrato" di ogni moto.
(cartina del mondo)
Il modello cosmologico antico venne assunto anche all’interno del pensiero cristiano medievale che, pure, introduce per tanti aspetti un’immagine radicalmente nuova del cosmo. Sulla scia della tradizione giudaica il Cristianesimo, e in particolare Tommaso d’Aquino, propone innanzitutto una concezione creazionistica, per la quale Dio risulta totalmente trascendente ed esterno ad esso, avviando in tal modo una decisiva desacralizzazione del mondo. Lo stesso ordine cosmico appare totalmente dipendente dalla volontà creatrice divina. La condizione "mondana" dell’uomo si definisce come la conseguenza del peccato originale, cosicchè il termine "mondo" viene a indicare la condizione dell’uomo nella sua lontananza da Dio contrapposta a quella spirituale: amare mundum equivale, in Agostino, a non cognoscere deum. Tale concezione ritornerà nell’organizzazione della Commedia dantesca in cui il malessere terreno che tortura l’uomo lo porta ad identificare la vita come un percorso che si indirizza verso l’alto nel tentativo del raggiungimento di Dio. D’altra parte la stessa idea del mondo come creatura di Dio porta a sottolineare piuttosto la sua caratteristica di manifestazione dell’infinita bontà e potenza divina. Il mondo acquista allora una sua bellezza e positività in quanto frutto della creazione divina. Una creazione peraltro finalizzata all’uomo. In questa prospettiva il mondo, e in particolare la terra, assumono un significato sovramondano.(universo dantesco)
Già nel ‘300, però, questa tradizione viene messa in crisi dalle correnti precorritrici della rivoluzione scientifica. Guglielmo d’Ockham, filosofo inglese, è la figura dominante del XIV secolo come Tommaso lo era stato del secolo precedente. Egli segna la crisi nel momento in cui esclude ogni possibile interpretazione razionale della verità della Rivelazione. La ragione risulta scissa dalla fede ed ogni possibilità di accedere per via razionale ai suoi contenuti viene esclusa. Inoltre tutta la filosofia occamista della natura si presenta come una critica radicale della fisica aristotelica. Ockham introduce un nuovo concetto di esperienza. Nella tradizione aristotelica, infatti, essa è sinonimo di conoscenza sensibile. La conoscenza intellettiva prende le mosse dalla sensazione per approdare alla formulazione di concetti di tipo universale (essenze, forme). Per Aristotele, dunque è questa conoscenza intellettiva l’elemento principale.(scoperte geografiche) In Ockham, invece, proprio l’osservazione è al centro del processo conoscitivo della fisica. Ed è proprio questo il motivo che precorre i tempi portando direttamente alla concezione moderna del mondo evolutasi attraverso personaggi quali Copernico e Galilei. Nel corso del ‘500 infatti l’astronomia aristotelico-tolemaica fu rovesciata da una profonda rivoluzione, che portò all’affermazione di un nuovo sistema astronomico: il modello eliocentrico copernicano. Spostando la terra dal centro dell’universo, diede all’uomo una nuova immagine di sé. A. Koirè ha efficacemente scritto: l’uomo perdette il suo posto nel mondo, o forse più correttamente, perse il mondo stesso in cui viveva e al quale pensava, trovandosi costretto a trasformare e sostituire non solo le sue concezioni e attribuzioni fondamentali, ma anche lo stesso quadro istituzionale del suo pensiero.
A essere trasformato, infatti, non fu solo la disposizione dei pianeti dell’universo, ma il metodo di indagine scientifica che, attraverso tentativi di mediazione quali quelli di Tycho Brahe e di estrema matematizzazione come quelli di Keplero e passando attraverso il metodo induttivo di Bacone, culminò nel puro riconoscimento dell’utilità della scienza per il progresso dell’umanità in Galilei.
Quest’ultimo potè impadronirsi dello strumento scientifico per prolungare i sensi verso la ricerca della verità.(strumenti)
Gli squilibri che la rivoluzione copernicana determinava nella coscienza collettiva sono mirabilmente espressi nella "Vita di Galileo" di B. Brecht.
Fulgenzio:
Ho studiato matematica, signor Galilei (…). Sono cresciuto in campagna, figlio di genitori contadini (…). Quando osservo le fasi di Venere, ho sempre loro dinanzi agli occhi. Li vedo seduti, insieme a mia sorella, sulla pietra del focolare, mentre consumano il loro magro pasto. Sopra le loro teste stanno le travi del soffitto, annerite dal fumo dei secoli, e le loro mani spossate dal lavoro reggono un coltelluccio. Certo, non vivono bene; ma nella loro miseria esiste una sorta di ordine riposto, una serie di scadenze: Il pavimento della casa da lavare, le stagioni che variano nell’uliveto, le decime da pagare… le sventure piovono loro addosso con regolarità, quasi seguendo un ciclo. La schiena di mio padre non si è incurvata tutta in una volta, ma un poco più ogni primavera, lavorando nell’uliveto: allo steso modo che i parti, succedendosi a intervalli sempre uguali, sempre più facevano di mia madre una creatura senza sesso. Donde traggono la forza necessaria per la loro faticosa esistenza? Per salire i sentieri petrosi con le gerle colme sul dorso, per far figli, per mangiare perfino? Dal senso di continuità, di necessità che infonde in loro lo spettacolo degli alberi che riverdiscono ogni anno, la vista del campicello e della chiesetta, la spiegazione del Vangelo che ascoltano la domenica. Si son sentiti dire e ripetere che l’occhio di Dio è su di loro, indagatore quasi ansioso; che intorno a loro è stato costruito il grande teatro del mondo perché vi facciano buona prova recitando ciascuno la grande o piccola parte che gli è assegnata… come la prenderebbero ora, se andassi a dirgli che vivono su un frammento di roccia che rotola ininterrottamente attraverso lo spazio vuoto e gire intorno a un astro, uno fra tanti, e neppure molto importante? Che scopo avrebbe tutta la loro pazienza, la loro sopportazione di tanta infelicità? Quella Sacra Scrittura, che tutto spiega e di tutto mostra la necessità: il sudore, la pazienza, la fame, l’oppressione, a che potrebbe ancora servire se scoprissero che è piena di errori? No: vedo i loro sguardi velarsi di sgomento, e il coltelluccio cadere sulla pietra del focolare; vedo come si sentono traditi, ingannati. Dunque, dicono, non c’è nessun occhio sopra di noi? Siamo noi che dobbiamo provvedere a noi stessi, ignoranti, vecchi, logori come siamo? Non c’è stata assegnata altra parte che di vivere così, da miserabili abitanti di un minuscolo astro, privo di ogni autonomia e niente affatto al centro di tutte le cose? Dunque, la nostra miseria non ha alcun senso, la fame non è una prova di forza, è semplicemente non aver mangiato! E la fatica è piegar la schiena e trascinar pesi, non un merito!
Galileo:
Le virtù non sono appannaggio unicamente della miseria, caro mio. Se i vostri genitori vivessero prosperi e felici, potrebbero sviluppare le virtù della prosperità e della felicità. Oggi, invece, i campi esausti producono coteste virtù di esaurimento, ed io le rifiuto. Amico, le mie nuove pompe idrauliche potrebbero operare miracoli ben maggiori di tutto quel grottesco affaccendarsi oltre l’umana capacità (…) No, no, no! La verità riesce ad imporsi solo nella misura in cui noi la imponiamo; la vittoria della ragione non può essere che la vittoria di coloro che ragionano. Tu parli dei contadini dell’Agro come se fossero il muschio che alligna sulle loro capanne! A chi mai può passare per la mente che ciò che a loro interessa, non vada d’accordo con la somma degli angoli di un triangolo? Certo che, se non si agitano, se non imparano a pensare, poco può aiutarli anche il più efficace sistema di irrigazione. Per tutti i diavoli, vedo bene che sono ricchi di divina pazienza; ma la loro divina furia, dov’è?