Si entra, ci si aspetta qualcosa da Wilson, si riceve qualcos'altro, si
rimane un po' sconcertati, anche se affascinati dal rigore luminoso degli
spazi, delle musiche e dei movimenti, dal cantare, poi pian piano, come
succede nei "grandi sogni", come li chiama Jung, entriamo nell'emozione
del gioco, nella perfidia delle sue componenti. Ritroviamo il Woyzeck
e il suo mondo, le "personae" le maschere mitiche, e allora
ci emozioniamo veramente. Il colore rosso, la morte iconica, l'omicidio
rituale-demenziale, il bambino nelle "ombre", tutto questo ci
travolge, ed è la fine.
Tutte le immagini, le sapientemente eterogenee canzoni di Waits, le facce
colorate dei personaggi, i colori sempre mutevoli come gli spazi, la composizione
dei gesti e dei movimenti, si ricompongono in un'Opera, vera.
Ci viene in mente l'utopia-sogno dell'opera "globale" di Wagner.
Ma i richiami che ci saltano addosso, vedremo poi, non sono solo questi.
Già prima di entrare in teatro si sa come va a finire, la storia
è palese, il finale "scontato", ma il dramma è
rivissuto, emozionalmnete ogni volta, dall'anima, come in un rito archetipale.
Già sappiamo quale sarà l'ultima scena, ma quando la vediamo
è come se la vedessimo per la prima volta, perché la vediamo
anche col cuore la cui "memoria" ha regole diverse. Attiene
al mondo dell'anima e delle sue "ombre", il cui ricordo (cordis)
è pura emozione, gioia e pianto.
|
|
L'impianto drammaturgico delle
opere di Bob Wilson è sempre una operazione d'architettura.
Ma come? attraverso quali canali? quali immersioni teatrali?
Attraverso il dominio del gesto, del movimento come freddo, composto, geometrico
veicolo dell'emozione.
Ce l'aveva già detto Ludwig Wittgestein, tra le righe dei suoi illuminanti
scritti, obbligandoci a sognare freddamente a modo suo (1).
"Il mio ideale è una certa freddezza.
Un tempio che faccia da sfondo alle passioni senza interloquire.
Ricordati dell'impressione che suscita la buona architettura, che
è quella di esprimere un pensiero.
Si vorrebbe accompagnarla con un gesto.
L'architettura è un gesto.
Non tutti i movimenti funzionali del corpo sono gesto.
Tanto poco quanto ogni edificio funzionale è architettura."
Ludwig Wittgenstein
Queste parole basterebbero da sole a descrivere la genialità del
tessuto spazio-gesto che sono l’arma vincente delle “costruzioni”
di Wilson.
Sette righe, sette frasi di filosofia minimale descrivono il fiume nel
quale scorrono le immagini, le architetture, le fredde e sempre mutevoli
luci, i suoni, i movimenti geometrici.
Un fiume eracliteo nel quale “non ci si puo’ bagnare due volte”,
in cui tutto scorre, assieme ai sentimenti ed alle emozioni. Allora si
comprende il significato nascosto del “minimale”, della “ripetizione”,
del gesto come segno, e dell’insieme dei gesti come scrittura, architettura
freddamente struggente.
|
|
L’opera musicale inventata
sul testo di Buchner da Tom Waits e Cathleen Brennan cambia le carte in
tavola.
Si insinuano le “canzoni”, le liriche, nell’impianto
teatrale di Buchne,r come se fossero i suoi pensieri non espressi, per
pudore, la sua voglia inconscia di far cantare le anime e le ombre dei
suoi personaggi. Con più generi musicali, apparentemente eterogenei,
che sono altrettanti richiami (sempre per la memoria del cuore).
Una diabolica intesa tra Wison e Waits fa esplodere uno stupefacente richiamo
all’espressionismo tedesco. Vengono in mente le atmosfere cupamente
lucide di Fritz Lang o de
"Das cabinet des Dr. Caligari” di Robert Wiene del 1919.
Uno espressionismo che qui si fa però struggente, poetico. Il bianco
e nero si fa colore quasi digitale. I volti bianchi, le scene inclinate,
come i pensieri.
E ancora ritmi e suggestioni musicali alla Beggar's Opera di Brecht, dove
pero’ la tracotanza di Mackie Messer, o il disincanto di Svejk,
si perdono nel buio della vana ricerca esistenziale del “soldato”
Woyzeck. Dove cattivi, buoni, saggi e folli danzano in una spirale tragica
attorno all’amore o alla morte, che li invischia tutti e li confonde,
li perde, li riscatta… E le liriche-musiche sono il filo conduttore
di tutto questo.
|
|
Nel '74 al Festival di Spoleto
fummo fulminati da "A letter for Queen Victoria", e invischiati
sottilmente dall'intervista che strappammo a Wilson dopo lo spettacolo
(2).
E il "gesto" fu (ed è) al centro del discorso.
"IL DRAMMA: Perché
il gesto?
"WILSON: …. Nella strutura coreutica sono sullo stesso piano
con la medesima funzione espressiva, parole, musica, pause, come figli
naturali di un semplice movimento della mano. Le parole vengono gettate
come palle nelle loro sfumature di suono…
" IL DRAMMA: Il gesto come rito.
" WILSON: … L'uomo si muove con dei ritmi che contengono sciolto
il suono. Questo grido diventa suono quando si avviluppa al movimento
articolato. La danza crea la musica., La parola si algebrizza paralizzandoci."
Questi brani dell'intervista del '74 potrebbero benissimo essere sufficenti
per descrivere l'anima di questo Woyzeck-in-scena di Wilson-Waits. Cio
significa che Wilson da 38 anni fa sempre le stesse cose? Che basta rispolverare
un vecchio articolo? Assolutamente no.
Significa che Wilson lavora da sempre su archetipi e sulla loro "diabolica"
manipolazione, in un nuovo minimalismo esplosivo. Significa che ci emoziona
sempre come se lo vedessimo per la prima volta. Sempre "giovani"
spettatori alla ricerca inconscia di stupore, di teatro come spazio magico
di alterazione della realtà, per sprofondarci dentro, fino al suo
buio risplendente.
|
|