Le teorie evoluzioniste
La teoria dell'evoluzione fu proposta per primo dal biologo francese Jean
Baptiste Lamark (1744-1829). Studiando l'anatomia comparata degli ani-
mali, concepi l'idea che le funzioni di adattamento all'ambiente determinano
la comparsa di organi differenziati negli animali e nelle piante e quindi giustificò in tal modo la variabilità delle specie viventi.
Egli ritenne che la natura fosse un sistema cooperativo dove, come in una
macchina, ogni ingranaggio si adatta all'altro per il funzionamento globale
del meccanismo.
Così ad esempio nell'ambiente della savana, si trovano capretti, cammelli e giraffe, per brucare rispettivamente cespugli e alberelli di
media grandezza ed alberi dal fusto più alto.
Per Lamark, se l'ambiente non viene modificato è la funzione che crea
l'organo, e non viceversa, pertanto la giraffa ha il collo lungo.
Ritenne inol-
tre che l'adattamento cooperativo all'ambiente rappresentasse la legge evo-
lutiva, in quanto il peculiare carattere acquisito per adattamento all'ambiente
diviene ereditario.
In questo contesto, Lamark ritenne importanti cause di adattamento
all'ambiente la luce ed il calore, imponderabili fluidi evolutivi, in quanto le
loro intensità sono differenti in varie parti della terra.
Notò nei suoi viaggi,
che i semi di varie piante risentono anche della debole luminosità lunare:
molte semenze generano le piante in particolari fasi lunari, e vari animali
come le tartarughe marine, fanno all'amore solo quando la luna è calante, in
particolari spiagge, quali quelle del Costa Rica, e che dalle loro uova nascono
maschi o femmine a seconda che restino ben sotterrate nella sabbia o più
esposte alla luce ed al calore.
Il naturalista inglese Charles R. Darwin (1809-1882) non condivise le teorie di Lamark perché non spiegavano, fra l'altro, come fosse possibile ereditare di padre in figlio i caratteri acquisiti come adattamento all'ambiente.
Darwin partecipò ad una missione esplorativa di ricerca nell'America del sud e notò come, nelle Galapagos, passando da un'isola ad un'altra si poteva osservare una fauna grandemente differenziata, benché le caratteristiche dell'ambiente, in special modo relative alla luce e al calore, fossero praticamente identiche. Secondo Lamark, avrebbero dovuto essere popolate dalle stesse specie viventi a cui venivano trasmessi gli stessi caratteri acquisiti.
Darwin si ricordò delle sue osservazioni da bambino in Inghilterra, quando
vicino a casa sua, era stata costruita una fabbrica ed il muro bianco del giardino divenne gradatamente nero per la fuliggine che si depositava sul muro.
Su quel muro avevano l'abitudine di posarsi molte farfalle bianche in primavera e solo poche farfalle nere potevano soffermarsi sul muro bianco perché rimanendo bene in vista, gli uccellini se le mangiavano.
Quando il muro
divenne nero a causa della fuliggine della fabbrica, la popolazione delle farfalle sul muro era preferenzialmente nera, non perché avessero le ali sporche
di fuliggine, ma perché la mortalità selettiva delle farfalle, causata dalla caccia degli uccelletti, era ora più probabile per le farfalle con le ali bianche.
Darwin quindi comprese chè la natura non era congegnata come un semplice sistema cooperativo, ma che la lotta tra le specie determinasse la sopravvivenza delle razze più adatte all'ambiente mutevole; la sua teoria è illustrata nella sua famosa opera On the origin of species by means natural selection (1859). Darwin, su questa linea, intravide la possibilità che l'evoluzione delle specie viventi avvenisse tramite graduali cambiamenti di condizioni ambientali e di favorevoli adattamenti delle specie viventi; non riuscì, però, a dare spiegazione alle loro mutazioni, drastici ed improvvisi cambiamenti, avendo appreso anche dai suoi studi sui fossili, che molte specie viventi in epoche remote erano ormai scomparse.
Una mutazione decisamente importante è quella che ha trasformato la
duplicazione cellulare degli esseri viventi, in riproduzione sessuale.
Certamente il secondo metodo di riprodursi è molto più complesso del primo, ma
il vantaggio evolutivo ditale mutazione è evidente: per duplicazione, tutti gli
organismi, rimanendo uguali a se stessi, hanno un ritmo di differenziazione
all'interno della propria specie praticamente nullo, con il rischio che una
malattia o avversità ambientale distrugga contemporaneamente tutta una
specie.
La riproduzione sessuale è più dispersiva, ma permette una evoluzione delle differenze tra gli individui e quindi un migliore adattamento della
specie ai cambiamenti ambientali.
Ma non è soltanto l'adattamento cooperativo delle specie all'ambiente -
come pensò Lamark - né la selezione graduale del migliore - come ritenne
Darwin - a determinare il divenire, cioè l'evoluzione e la mutazione delle
specie viventi: altri fattori fondamentali erano ancora da ricercare per spiegare l'evoluzione.
Infatti se il meccanismo selettivo di Darwin agisse come
unico fattore evolutivo, man mano la selezione evolutiva porterebbe alla
eguaglianza delle specie e non alla enorme differenziazione che realmente
osserviamo.
L'abate Gregory Mendel (1822-1884) dette un grande contributo alla
comprensione del fattore evolutivo mediante lo studio delle combinazioni
delle cellule germinali.
Nel suo monastero in Slesia egli cercò di migliorare
la qualità di piselli che crescevano nell'orto, generando ibridi di specie di piselli differenti.
Prendendo nota di cosa succedeva in varie generazioni successive, scoprì che gli incroci seguono delle regole ben precise e distinse i
caratteri ereditari delle cellule sessuali germinali, in dominanti e recessivi.
La
diversità delle specie è quindi non solo in ffinzione dell'adattamento
all'ambiente, ma deriva anche dalla combinazione dei caratteri genetici diversi presenti negli incroci, là dove possono effettuarsi.
Nessuno credette allora a quanto Mendel annotò nei suoi quaderni di appunti fino al 1900, perché non si sapeva nulla dei caratteri ereditari a cui faceva riferimento l'abate.
Solo nel 1875 alcuni zoologi tedeschi, tra cui Oscar Hertwig e Ernst H. Haechel, durante un viaggio di studio nel mare mediterraneo con la spedizione Challenger, scoprirono che nelle uova di riccio di mare si fondevano i
nuclei, maschile e femminile, dello spermatozoo e dell'ovulo per formare un
unico nucleo del nuovo individuo nascituro.
Ritennero quindi che si dovesse
attribuire la nascita della vita alla composizione chimico-fisica dei cromo-
somi, piccoli segmenti del nucleo della cellula a cui l'abate Mendel faceva
intuitivamente riferimento come detentori dei caratteri ereditari delle specie
viventi. Il numero dei cromosomi è generalmente costante per una stessa
specie (46 nell' uomo, 78 nel cane, 42 nel grano, ecc...).
Solo recentemente, nel 1953, i biologi molecolari James D. Watson e Francis. H. Crick, definirono la struttura chimico-fisica a doppia elica dell'acido desossiribonucleico (definito dalle lettere DNA) del quale sono essenzialmente costituiti i cromosomi che determinano i caratteri ereditari di ogni specie vivente.
La funzione del DNA (acido nucleico) in ogni cellula è invero ancora interpretata meccanicisticamente, come se il DNA fosse l'artefice primario della costruzione delle proteine, in analogia a quanto avviene in una fabbrica per il montaggio di una macchina.